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Connessioni argentine

Scritto da:

Elia Mercanzin

Antefatto

Si torna indietro.
Fino al mondiale di calcio del 1978 svoltosi proprio laggiù.
Ricordo i filmati di repertorio che giravano in tv nei giorni precedenti l’inizio della successiva rassegna, “Espana 82”, mentre ne sfogliavo orgoglioso l’album delle figurine Panini appena completato.

Immagini in bianco e nero che provenivano da una specie di strano pianeta: in fin dei conti il passato per un bimbo di 8 anni è un concetto difficile da perimetrare.
Il gol di Bettega, il missile all’incrocio dei pali da 40 metri dell’olandese in semifinale, i giocatori in maniche lunghe, gli spettatori col cappotto.

“ma se giocavano in estate! Quanto freddo fa in Argentina a Giugno?”

Nomicognomi

Nella mia testa si fece spazio l’idea che l’argentina fosse un posto piovoso, triste, dove la gente veste fuori moda e porta le basette troppo lunghe.
In quelle stesse settimane di primavera, dal gracchiare dei radiogiornali mattutini, che mia mamma ascoltava fedelmente, fuoriuscivano tanti discorsi e parole, alcune familiari, alcune meno, altre strane e oscure come Giulioandreotti, Liciogelli, Papawoitila, Scalamobile, Robertocalvi, Bancoambrosiano, Pentapartito, crisiDiGoverno, inflazione, Solidarnosch… cose così.

Questi ricordi sonori si stratificavano, giorno dopo giorno sempre di più, ascolto dopo ascolto, senza alcuna associazione con i corrispettivi filmati o immagini che passavano la sera in tv, ma soltanto con scenari fantasiosi che nascevano nella mia testa.

Potenza del racconto orale…

Prima di andare a scuola tra il caffelatte e la cartella da riempire all’ultimo minuto, alle orecchie di un bambino delle elementari qual’ero arrivavano quindi questi “nomecognome” senza volto e locuzioni insignificanti ma dal suono così austero, immerse in frasi che mi suonavano importanti, grevi a volte.
Pur non cogliendone quasi mai il senso, i riferimenti, i nessi con una qualche realtà, non le ho più scordate.
“Nomicognomi” e locuzioni curiose.
C’erano anche nomi di posti esotici come “beirut” o “elsalvador” che poi mi divertivo a cercare nell’atlante geografico.

E poi “desaparecidos”, “plazademaio”, “malvinas”, “Folcland”, quest’ultime sempre associate ad “Argentina”.

“Cos’hanno a che fare sti nomi con il paese di Maradona, Passarella, Kempes?”

Qualcuno mi spiegò, forse mio fratello, che “in Argentina c’è la dittatura militare e ci son persone che scompaiono nel nulla e le madri di queste persone protestano per sapere dove sono finite.”

“Dittatura militare”.
“Persone che scompaiono.”
“Madri.”

Appuntamento con la memoria

Quasi trentuno anni dopo, sono proprio li, in quel posto preciso.
In uno di quei posti.
Mi sfilano davanti queste signore anziane col fazzoletto bianco in testa e un sorriso sereno sulle labbra.
Scendono alla spicciolata dal pulmino che ogni giovedì le va a prendere per il loro “appuntamento” settimanale con la memoria.

La loro memoria è qui in Plaza de Mayo a Buenos Aires.
Sono loro quelle madri che gridavano il loro dolore allora, sfidando i manganelli dei militari, agitando le foto in bianco e nero dei loro figli scomparsi, per chiedere verità.

Sto guardando un pezzo di storia, adesso, mentre queste madri percorrono oggi come allora, gli infiniti giri attorno al monumento, in piccolo corteo, scandendo al megafono i tanti “nome e cognome” che non ci sono più, attendendo dagli altri la risposta “presente!”, uno dopo l’altro.

E’ una litania civile, un rosario laico.

Mentre cerco di scansare i turisti che si muovono come gamberi intenti a fotografare la scena, sento che è in corso una specie di riconnessione interiore tra il bambino di allora e l’adulto di oggi.
Quelle lontane ingenue, genuine sensazioni cominciano a trovare il loro posto, come fratelli minori, accanto ai sentimenti vividi, maturi e consapevoli di questi attimi.
Improvvisamente, tutto ciò che ho letto a riguardo negli ultimi anni non è più cronaca storica fredda e inerte; i protagonisti, le persone sono vive, parlano, si muovono davanti a me; i nomi trovano un volto, i luoghi il proprio spazio fisico, luce, colori, suoni.
Non è una rievocazione storica: è tutto ancora qui, maledettamente qui, oggi.
Credo che qualcosa di simile si potrebbe provare visitando Auschwitz oggi, riportandoci i sopravissuti e infilandoli smunti nelle logore divise, schierati per l’appello.

Rodolfo Walsh

“Queste sono le riflessioni che nel primo anniversario del vostro nefasto governo ho voluto far arrivare ai membri di questa Giunta, senza aspettarmi di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato ma rimanendo fedele alla promessa fatta molti anni fa di rendere la mia testimonianza nei momenti difficili.”

Così si conclude lo scritto di Rodolfo Walsh, una lettera aperta al governo militare con cui denunciò con giornalistica precisione e incredibile coraggio gli orrori della dittatura.
Venne catturato in un’imboscata a Buenos Aires mentre diffondeva la sua lettera.
Fu ucciso lo stesso giorno della sua cattura e il corpo bruciato e buttato in un fiume.
Nessuno, all’epoca, pubblicò il suo scritto.

Ora quella lettera è impressa nel plexiglass del monumento a lui dedicato che mi sta di fronte, qui nel parco dell’ESMA.

Questo complesso, scampato alla demolizione grazie al presidente Nestor Kirchner, oggi sembra una grande e pomposa casa di cura (manicomio?) dismessa, in alcuni punti un po’ malconcia, con i viali alberati riassettati alla meno peggio, i prati gibbosi e gli edifici austeri, qualcuno fresco di bianco, qualcun altro segnato dal tempo.
Uno di quei posti che qui da noi rientrerebbe in qualche piano di recupero, di riconversione, chessò, a centro direzionale polifunzionale dove infilarci dentro i nuovi uffici dell’anagrafe o la sede della protezione civile.
Attraverso questo cancello che da direttamente in Avenida del Libertador, entravano i veicoli senza insegne con in pancia le persone appena strappate dalle proprie famiglie oppure trasferite da altri luoghi di detenzione come questo.

Cammino oltre la garritta di guardia e mi oriento con la mappa consegnatami all’ingresso.
Individuo l’edificio del casinò degli ufficiali: si staglia laggiù in fondo, un po’ in disparte rispetto alle altre strutture, com’è giusto che sia.
Un luogo di svago in una accademia militare deve tenere un profilo basso, giustamente.
Profilo basso tornato utile dal ’76 in poi quando ha cominciato la sua rapida riconversione a casa degli orrori a uso e consumo dei criminali in divisa:  quasi 5000 persone son passate di qua, solo 250 ne sono uscite vive.

Già.

Torturate, violentate, umiliate ma vive.

Molti altri sono usciti da qui ma solo per esser caricati sugli aerei e finire la loro esistenza nel mezzo del Rio de la Plata, spinti giù narcotizzati, coscenti o già morti che fossero, anche durante le partite del mondiale di calcio quando il mondo e una parte del paese guardava dall’altra parte gaudente.

Scomparsi, “desaparecidos”.

Si stima un totale di 30.000 tra ragazzi, donne, anziani, uomini,  studenti, operai, sindacalisti, religiosi (quelli coraggiosi), bambini, giornalisti, insegnanti strappati alla propria vita, alle proprie famiglie.
Un massacro scientifico a cui molti hanno collaborato direttamente come aguzzini, fiancheggiatori e delatori o indirettamente con la torbida e imperdonabile omissione di chi sa e tace, come le gerarchie ecclesiastiche che mai hanno denunciato apertamente le violenze, che mai hanno usato la loro influenza per denunciare al mondo il comportamento criminale della giunta militare.
Il terrorismo di stato è stato un inquietante rumore di fondo che ha attraversato l’Argentina per quasi 7 anni per non sentire il quale qualcuno ha alzato il volume della musica, qualcun altro l’ha accettato “cristianamente” come un male minore.
E mi sale il disgusto per il genere umano.

Collegamenti

Ora collego tutto.
Ma non si tratta di un fenomeno logico, cognitivo bensì emotivo.
Mi appare dolorosamente chiaro come, nel corso del tempo, siano cambiati i metodi ma non le strategie.
Le categorie di mandanti, le loro motivazioni, la loro visione dell’ordine sociale, gli obiettivi di fondo rimangono gli stessi, a tutte le latitudini, anche qui in Europa, decenni dopo.

Militari al governo, carri armati agli angoli delle strade, rapimenti, fucilazioni o “voli della morte” usati oggi sarebbero mezzi anacronistici, scomodi e controproducenti in una società globalizzata, (che si crede) evoluta come quella europea contemporanea.
L’opinione pubblica e la comunità internazionale non potrebbero tollerare simili macroscopiche barbarie.
Problemi di gestione e marketing in buona sostanza.

“Questi fatti, che scuotono le coscienze del mondo civile, non sono tuttavia quelli che hanno causato maggiore sofferenza al popolo argentino né sono le peggiori violazioni dei diritti umani in cui siete incorsi. È nella politica economica di questo governo che va ricercata non solo la spiegazione dei vostri crimini, ma una crudeltà ancora più grande che punisce milioni di esseri umani con la miseria programmata.
In un anno avete ridotto il salario reale dei lavoratori del 40%, diminuito la loro partecipazione alle entrate nazionali del 30%, aumentato da 6 a 18 le ore di una giornata lavorativa di cui un operaio ha bisogno per pagare le spese familiari , risuscitando così forme di lavoro forzato che non esistono più nemmeno nelle ultime colonie.
[fusion_builder_container hundred_percent=”yes” overflow=”visible”][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”no” center_content=”no” min_height=”none”][…] portando il tasso di disoccupazione alla cifra record del 9% e promettendo di aumentarla con 300.000 nuovi licenziamenti, avete fatto retrocedere le relazioni industriali all’inizio dell’era industriale […].
I risultati di questa politica sono stati fulminanti. In questo primo anno di governo il consumo alimentare è diminuito del 40%, quello di vestiario del 50%, quello di medicinali è praticamente scomparso tra le classi popolari. Ci sono zone di Buenos Aires e dintorni dove la mortalità infantile supera il 30%”

Così recita la lettera aperta di Rodolfo Walsh in uno dei suoi passaggi centrali.

Vi ricorda per caso la Grecia del 2013? 
Cos’è cambiato? Nulla.
Solo il metodo, gli esecutori, i numeri.
I mandanti sono gli stessi, oggi come allora.

Come riportato nel libro “1976 – Golpe Civil” di Vicente Muleiro, la politica economica della dittatura era finalizzata al contenimento dell’inflazione e all’incoraggiamento degli investimenti stranieri, tramite la deregolamentazione in ambito finanziario, la svendita delle industrie nazionali, lo smantellamento del tessuto delle medie imprese mediante il soffocamento della produzione interna.
L’annichilimento dei sindacati e l’abolizione dei diritti civili e dei lavoratori, contribuì a garantire ampi margini di profitto alle oligarchie industriali-commerciali-latifondiste e alle aziende straniere, che accorsero numerose durante la dittatura.
I salari furono congelati, e, nonostante la recessione e la crescita dell’inflazione, rimasero uguali, facendo precipitare il potere d’acquisto della maggior parte delle categorie lavorative.
Nessuno poteva scioperare o organizzarsi in sindacati, poiché l’esercito interveniva puntualmente facendo sparire gli “scontenti”.
Le aziende straniere e le alte gerarchie della dittatura si arricchirono a dismisura, mentre il paese ed i suoi lavoratori si impoverirono.

Vi ricorda per caso la Grecia del 2013? 
Cos’è cambiato? 
Nulla.
Solo il metodo e le dimensioni dei fenomeni.

Al posto delle mostrine metti la cravatta, invece dei carri armati usa il debito, aggiungici l’accresciuta influenza delle logiche finanziarie speculative, la narrazione de “l’aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità” al posto del “pericolo della sovversione marxista” e il risultato che si ottiene è il medesimo.
Certamente è richiesta maggior pazienza, una attenta pianificazione a medio-lungo termine, una gestione più sofisticata degli eventi e dell’informazione ma non ci si sporca le mani, si ottengono uno dopo l’altro tutti i risultati sperati e si può girare per l’Europa a testa alta.

Perchè la gente non coglie i dietro le quinte, il cambio di scenografia, il lento ma inesorabile succedersi degli atti, la reinterpretazione creativa del medesimo odioso copione.

Non ci è riuscita un paio di anni fa, quando la situazione era grave ma non disperata, figuriamoci oggi quando il terrore della povertà reale, quotidiana, annebbia la mente spingendo l’essere umano ad aggrapparsi a quel poco che gli rimane per non rischiare di perdere anche quello.
E così ad Atene si rimane paralizzati, accucciati in un angolo, al buio, senza reagire con la speranza che quell’adulto minaccioso smetta di picchiare i bambini cattivi, quelli “che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità”.
La stessa speranza dei prigionieri dell’ESMA, la speranza di tornare a casa, la fine dei pestaggi, delle umiliazioni.

Terrorismo di stato 2.0 VS Terrorismo di stato “Old Style”.

Ritorno a casa

L’ampia orbita della mia personale connessione con l’Argentina mi ha riportato, in un certo senso, “a casa”: entrando ho trovando le luci accese, come se quel luogo interiore fosse stato ad aspettarmi, dal 1982, mentre me ne andavo in giro per la vita.[/fusion_builder_column][/fusion_builder_row][/fusion_builder_container]

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A valle ci siamo noi.

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